LA CITTÀ DELLA LUCE 
Aprile 2019 - 35mm Ilford / Kodak Color

Una tristezza cosmica, infinita, incolmabile. L'unico desiderio è quello di scivolare fuori dal taxi in corsa e rotolare lungo la corsia stradale verso il praticello d'erba mal seminata che separa la pista ciclabile dal marciapiedi che porta al parcheggio di un edificio singolo, rotondeggiante ad un unico piano, sede di una specie di pub ristorante, dove nei giorni precedenti, ho visto sedere “persone rispettabili” tutti maschi in giacca e cravatta probabilmente legati al governo.
Rotolando, mi sarei smembrato in pezzi come plastici, o forse generati al computer, ed in quanto virtuali, si sarebbero manifestati nella loro intera artificialità. Come pezzi di automobili lasciati ai crocevia più trafficati, dietro a guardrail, i pezzi del mio corpo sarebbero rimasti come immondizia ai bordi di quel praticello marcio.
Questa esistenza, l'appena percettibile ma perfetta sfumatura dal lilla al rosa, al giallo al verde che diventa azzurro, distesa tra i piloni bianchi del Dinamo. Ai piedi di facciate enormi di palazzi disposti sia frontalmente che un po di lato, arancioni, costituiti da placche squadrate a comporre architetture neo-classiche con decorazioni di cemento dello stesso colore, che danno una forma quasi organica alle superfici.
Seguono traiettorie infinite che tagliano blocchi e zone perfettamente pianificate, come di una città utopica, la città della luce.
E con enorme stupore, trovo finalmente un senso alle interminabili superfici di vetri a specchio che avvolgono gli orrendi palazzoni costruiti negli anni '90 con materiali di scarsa qualità, ma che, quando prostrati verso il sole di questo Aprile cosmico, irripetibile, propagano tale luce, perfetta, esatta, verso spazi opposti che talvolta si illuminano di un bagliore etero, sacro.
E proprio per l'inesperienza di tali punti, essendo perlopiù costretti ad esser zona d'ombra e probabilmente pensati per esser tali, ecco che in essi avviene un miracolo ancora più sprezzante nel vivere quegli istanti di luce, che nel variare del tempo e nel susseguirsi delle stagioni, variano anch'essi fino a ritornare al loro esser solamente zona d'ombra.
In una vetrata trovo un riflesso già visto, famigliare, e' l'insegna di quel pub ristorante, dove rincasando col taxi provavo la sensazione confortante, il bisogno forse, di venire scaraventato fuori dalla portiera e rotolare nella terra marcia mista a zolle d'erba, ai lati della strada.
E proseguendo lungo il canale, ecco che la luce delle 6 del pomeriggio giunge diretta, obliquamente, ad infiammare degli enormi salici che mossi dal vento tiepido scivolano, con i loro filari di verde nuovo, quasi acido, e seguono movimenti ondulatori come capelli appena sciolti e puliti, profumati del polline primaverile, e dietro, si ergono imponenti blocchi residenziali dalle mille finestre specchianti, intervallate da strane angolature di materiali plastici o pannelli con particolari verniciature, a creare giochi di forme già viste, forse il vero e proprio elemento ricorrente di questa stupenda e infelice città.
Tra le uscite del metro lungo i marciapiedi larghi tanto quanto la strada, tra aiuole non ancora fiorite delineate da muriccioli di cemento, gli abitanti rincasano dalla lunga settimana quasi giunta al termine, o già escono, pronti per passare la serata fuori, in qualche locale o affrettandosi per trovare ancora dei negozi aperti, vestiti eleganti fino all'esasperazione ma con altrettanta naturalezza, camminano disinvolti tra percorsi ben conosciuti con obiettivi ben definiti.
Forse, l´esatto opposto del mio essere, che pur sapendo di essere al momento giusto nel luogo giusto, fatico a cogliere l'essenza della mia azione e lascio i miei doveri lavorativi vagando lentamente per ore ed ore per la città, incurante del tempo e del significato che presuntuosamente gli viene dato. Io, sono, e in quanto tale mi relaziono agli spazi, assurdi come soltanto quelli di questo luogo, ignorato dal resto del mondo, riescono ad essere. Rimanendone sconvolto ad ogni angolo, ad ogni sguardo, tra i fasci di luce devastante che penetra nella materia, nei materiali artificiali, esaltandone la composizione chimica, rilasciandone quel puzzo di modernità, di smog, di plastica, di ferro e di vernice, di odore di metro dell'Est.
Tra questi pensieri, respirando la città, con il dolore ai talloni per il troppo lento camminare, vado a prendere Irma al lavoro e come sempre la domanda che mi viene fatta e´ “Stai bene? Ti vedo stanco. E´successo qualcosa oggi? Ma sei sicuro che stai bene?”
Ed io non so cosa rispondere.